venerdì 4 novembre 2016

Terremoto. Ci vorrebbe ... Come nel 1784

Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto sconvolse la Calabria meridionale. L’onda d’urto, partita dalla Piana di Gioia Tauro, investì con diversa intensità l’intera regione e la Sicilia, e fu seguita da altre potenti scosse nei giorni e mesi successivi.
Quel terremoto lasciò dietro di sé uno sciame sismico che durò anni. 

Fu uno dei più catastrofici terremoti della nostra storia, reso particolarmente distruttivo nei paesi della Piana dagli effetti del moto ondulatorio e sussultorio, che sollevarono il suolo alluvionale poggiante sulla roccia madre e lo scaraventarono altrove.
Non pochi vigneti e uliveti furono lanciati su proprietà altrui, creando problemi ardui di confinamento ai tecnici della ricostruzione. Scrisse di quell’evento lo storico Pietro Colletta: «Nulla restò delle antiche forme: le terre, le città, le strade, i segni svanirono; così che i cittadini andavano stupefatti come in regione peregrina e deserta».
Ma quel terremoto merita di essere oggi ricordato non per la sua violenza – che per fortuna non è paragonabile con quella che tormenta oggi i paesi dell’Appennino centrale – quanto per l’ardimento e l’originalità con cui reagì il potere politico del tempo. Nel 1784 il re di Napoli, Ferdinando IV, prese una iniziativa rivoluzionaria, trovando il tacito consenso del papa di allora. Con una serie di «regal dispacci» abolì gran parte dei conventi e monasteri esistenti in regione, i beni immobili di proprietà degli enti ecclesiastici vennero confiscati, la ricchezza della Chiesa fu incamerata in una speciale «Cassa sacra» e utilizzata, grazie alla messa in vendita dei beni, per finanziare la lunga e costosa opera di ricostruzione. «La calamità della Calabria – scrisse l’abate Galiani – è stata tale e tanto distruttiva, che offre il campo a poter spaziosamente formare un nuovo sistema di cose…Bisogna adunque profittar del momento per formare un piano generale del suo ristoramento».
Ecco la grande lezione che ne viene a noi oggi. Realizzare una shock economy di segno rovesciato rispetto a quelle realizzate negli ultimi decenni – come ci ha raccontato Naomi Klein – dai governi neoliberisti. Approfittare dell’evento disastroso del terremoto multiplo dell’Italia centrale, non certo per incamerare i beni della Chiesa, ma per realizzare due grandi operazioni distinte, in grado, per dirla con Galiani di «formare un nuovo sistema di cose». I costi elevati delle ricostruzioni possono essere finanziati non con l’obolo caritatevole richiesto a tutti i cittadini, ma riorganizzando il sistema fiscale italiano. Vale a dire creando una gerarchia di esazione più severamente progressiva, colpendo i grandi patrimoni, organizzando un sistema apposito di leggi e di macchina inquisitiva per combattere l’evasione fiscale, rendendola severamente rischiosa e punitiva per chiunque la pratichi. Da ciò verrebbe, com’è ovvio , un vantaggio generale per il paese e risorse per rimettere in piedi il nostro welfare.
Ma la seconda operazione non è soltanto un piano di ricostruzione. Il recente terremoto rischia di rendere irreversibile il più grave problema demografico-territoriale del nostro Paese, ignorato sovranamente dalle nostre classi dirigenti. Non si tratta di «mettere in sicurezza il territorio», come si usa dire, quasi che tutto si esaurisse in un’opera di ingegneria civile. Si dimentica la drammatica situazione della Penisola: ormai quasi il 70% della sua popolazione si addensa lungo le aree costiere e la Valle padana, mentre il centro si svuota. Se dovessero verificarsi terremoti violenti o altri eventi catastrofici in queste aree, a parte il numero dei morti, l’intera economia nazionale e le infrastrutture civili subirebbero danni che metterebbero in ginocchio per anni la nostra comunità.
Dunque, nelle terre da ricostruire non bisogna solo portare dei cantieri momentanei, ma popolazione ed economie. Le aree interne, quelle oggi abbandonate e quelle colpite dal sisma, devono rinascere non con una gigantesca opera pubblica, ma con un progetto che affidi alle popolazioni l’opera di creare o ricreare il tessuto produttivo, nuove relazioni sociali, servizi, oltre a nuovi modelli abitativi da affiancare alle ristrutturazioni. Non è un nuovo gravame che si aggiunge al nostro debito, ma un investimento per il nostro futuro: si tratta infatti di far rifiorire la nostra agricoltura montano-collinare, riprendere l’economia dei nostri boschi, estendere gli allevamenti, dare nuove opportunità all’artigianato, ai saperi alimentari locali, al turismo, ecc.
Per tutti i millenni della nostra storia sono state prevalentemente queste le aree della nostra economia produttiva. E oggi l’agricoltura non è più un’economia marginale, bensì il centro irradiatore di servizi avanzati. Ma per una tale prospettiva occorre che lo Stato torni a progettare in proprio, senza attendere che il mercato trovi le proprie convenienze. Bisogna bandire le fallimentari ricette neoloberiste. E, come vado ripetendo da tempo, i migranti che arrivano sulle nostre terre costituiscono un’opportunità grandiosa e insperata per affrontare un problema da cui letteralmente dipende il futuro dell’Italia.

Piero Bevilacqua, il manifesto, venerdì 4 novembre


11 commenti:

  1. Basta guardare l'abbandono del nostro Appennino , per rendersi conto di quanto sia vero quanto scritto da Bevilacqua.
    Ciao
    G.

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    1. Vero.
      Sul "nostro Appennino" due sole considerazioni.
      Primo. L'abbandono è mitigato dall'arrivo di immigrati.
      Secondo. Si conta un record di frane e smottamenti.
      Entrambe queste realtà sollecitano investimenti mirati e progetti adeguati di sviluppo sostenibile.
      Gianni

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  2. In effetti, non bisogna avere grande fantasia.
    La vicenda terremoto ci raccomanda di studiare, investire, progettare, lavorare per mettere in sicurezza scuole, ospedali, case, officine, ponti ...
    Uno sviluppo per i prossimi venti anni.
    Convogliando li gran parte delle risorse nazionali.
    Io ci sto.
    Nik

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  3. Terremoto, trombe d'aria, alluvioni ...
    C'è da lavorare per venti anni, volendo.
    Sarebbe ora ...
    s.

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    1. ... e si risparmierebbero risorse pubbliche e private.
      Prevenire costa meno che curare disastri, danni e malattie.
      Gianni

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  4. Ma le risorse dove le troviamo?
    Se Renzi e compari insistono nel - tasse per tutti, cioè per chi paga e per chi no (vedi liquidazione di Equitalia), come si può investire seriamente?
    Oggi il Presidente riprende il discorso scuole da mettere in sicurezza (ricordate? era il primo impegno annunciato al suo insediamento. poi?) ...
    Parole, parole, parole ... soltanto parole! Parole per noi ...
    L.

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    1. Si potrebbe continuare il revival con:
      1."In questa barca persa nel blu, noi siamo solo dei marinai, tutti sommersi non solo tu, nelle bufere dei nostri guai ..." Si può dare di più di Morandi, Ruggeri, Tozzi, Bigazzi
      2. "La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione. La libertà di Gaber.
      3. "No, no, no ... Non credere di Mina, Leali, Calabresi e Reverberi.
      Revival a parte.
      Io sarei per tasse più giuste, eque e progressive. Pagate da tutti (al primo posto iniziative contro evasione ed elusione) e rapportate agli obiettivi sociali da perseguire.
      Tra questi, ad esempio, la messa in sicurezza di scuole, ospedali ed infrastrutture primarie. Una priorità nazionale che non può attendere, su cui investire subito (e nei prossimi 5 anni) ingenti risorse pubbliche.
      Gianni

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  5. A proposito di terremoto, che è successo in America?
    Mario C.

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    1. Qualcosa che somiglia ad un terremoto. Ma, almeno per ora, gli strumenti a nostra disposizione non ci consentono ancora di classificarlo con precisione. Magari ci proviamo.
      Gianni

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  6. In Nuova Zelanda una scossa del 7.8 grado ha causato 2 morti ...
    Arrivasse da noi?
    s.

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